I figli degli uomini e i figli dei cani.


E così, anche il Papa è finito nel mirino degli animalisti. A scatenare la loro ira funesta è stato il racconto di due episodi durante il suo intervento agli Stati generali della Natalità. Due fatti accaduti in piazza San Pietro, dove il Papa si è ritrovato davanti a cagnolini trattati come figli dalle rispettive padrone. Il primo risale a due settimane fa, quando il suo segretario si è avvicinato a una donna con un passeggino: «Lui, un prete tenero – dice Bergoglio – si avvicina per vedere il bambino. Era un cagnolino». E poi l’altro episodio, durante l’udienza del mercoledì, quando il Papa è andato a salutare i fedeli e ha incrociato una signora di 50 anni che ha aperto la borsa e, mostrandogli un cagnolino, gli ha detto: “Me lo benedice il mio bambino?”. Il Papa l’ha rimbrottata: «Signora tanti bambini hanno fame e lei col cagnolino…”».
Tanto è bastato per scatenare una campagna d’odio contro di lui che ha visto la partecipazione anche di illustri intellettuali di certi salotti radical chic.
Conosco bene questi meccanismi. Qualche anno fa è toccato anche a me finirci dentro. A me che ho sempre amato i cani e che ho pianto come un bambino quando, sette anni fa, persi la mia Ceylon. Il pastore tedesco femmina che nei romanzi di Casabona si chiama Snaus. All’epoca, uno sciagurato, si filmò mentre uccideva un cagnolino di nome Pilù sbattendolo contro il muro e diffuse il video sui social, scatenando una giusta reazione di indignazione. Questo movimento di protesta organizzò delle manifestazioni che portarono alla decisione di erigere un monumento a ricordo del povero cagnolino. Io mi permisi di osservare che i monumenti si dovrebbero dedicare agli eroi che hanno sacrificato la loro vita per gli altri. Che, invece, vengono spesso dimenticati. Apriti cielo. Ci mancò poco che non fui costretto a trasferirmi in una località segreta.
Quindi, per quello che può servire, io sto con il Papa. Con tutto il rispetto e l’amore per i cani, i figli della specie umana si chiamano bambini e non hanno la coda. I figli dei cani si chiamano cuccioli, sono bellissimi, teneri, ci fanno compagnia e meritano di essere amati ma sono diversi dai bambini: hanno la coda, il pelo e abbaiano. Queste due cose non dovrebbero mai essere confuse come, purtroppo, spesso avviene.
Il Papa li ha sempre benedetti gli animali, si trovano tante foto in rete che lo dimostrano. Anche se la campagna di odio che è partita nei suoi confronti vorrebbe far credere che si rifiuta di farlo. Lui ha voluto solo richiamare l’attenzione su tanti bambini (quelli veri) che muoiono di fame e vivono in condizioni disumane che meriterebbero, quantomeno, lo stesso affetto e la stessa attenzione che viene dedicata qui da noi ai cani. Una società che chiama bambino un cane e si gira dall’altra parte di fronte a bambini che muoiono di fame è una società malata d egoismo che ha perso il contatto con la realtà. Certo, una cosa non esclude l’altra: ti puoi occupare del cucciolo e ti puoi occupare del bambino. Ma se consideri bambino il cucciolo vuol dire che il vero bambino non lo vedi più.

E’ Figlie – I figli, una bellissima poesia di Lello Florio.

E’ Figlie 

Mio padre m’ha ditto
ca ‘o pate l’ha ditto
ca ‘e figlie se vasano n’suonno?
Adesso capisco pecché si me vase me pare ca me mette scuorno!
E figlie si dormono non ponnu sapé si ‘o pate po se l’ha vasate.
Quand’ero vuaglione io desiderava sti gest d’affette a papà.
Lui condizionato dei detti do pate non è riuscito a mi fa.
Aspettava ca papà mi veniva a vasà, quante notti so state scitate,
po quande veniva fingevo e durmì
e non mo puteva abbraccia teneva paura ca si mi scopriva po’ non mo veniva chiu a dà.
E figlie si dormono non ponnu sapé si ‘o pate po se l’ha vasate.
“Mio padre m’ha ditto
ca ‘o pate l’ha ditto
ca ‘e figlie se vasano n’suonno?
Però certi detti,
sono detti sbagliati,
è inutile a ce girà attuorno.
I’so’ stato figlio,ma mò, songo pate,
‘sti ‘ccose me songo mancate.
Picciò, nun aspettoca vanno a durmì,
I’ ‘e figlie m’è vaso scetate.

(Lello Florio)

I figli

Mio padre mi ha detto che il padre gli ha detto
che i figli sì baciano quando dormono?
Adesso capisco perché se mi bacia sembra che ho vergogna!
I figli se dormono non possono sapere se il padre poi se li è baciati.
Quando ero ragazzo io desideravo questi gesti di affetto da parte di mio padre.
Lui condizionato dai detti del padre non è riuscito a farmeli.
Aspettavo che mio padre mi veniva a baciare, quante notti sono stato sveglio,
poi quando arrivava fingevo di dormire
e non potevo abbracciarlo, avevo paura che se mi scopriva non veniva più a baciarmi.
I figli se dormono non possono sapere se il padre poi se li è baciati.
Mio padre mi ha detto che il padre gli ha detto che i figli sì baciano quando dormono?
Però certi detti sono sbagliati,
è inutile che ci giri intorno.
Io sono stato figlio, ma ora sono padre,
queste cose mi sono mancate. perciò, non aspetto che vanno a dormire,
i figli me li bacio quando sono svegli.

Tutti per uno, uno per tutti.

Marco, Cristiano, Adam, Manuel e Davide, sono cinque ragazzi di Belforte all’Isauro, un piccolo comune italiano di 742 abitanti della provincia di Pesaro e Urbino, nelle Marche.

Nel giugno del 2021, dopo aver conseguito la maturità, decidono di festeggiare con un esperienza forte, di quelle che si raccontano per tutta la vita: portare a termine il cammino di Santiago. Scelgono il percorso più lungo e impegnativo, quello che parte da Saint Jean Pied de Port, in Francia, e arriva a Santiago di Campostela, percorrendo tutta la Spagna per un totale di 779 chilometri. Come se non bastasse, aggiungono al viaggio anche una capatina a Finisterre, il chilometro zero del cammino, considerata un tempo la fine del mondo conosciuto. Così si arriva a un totale di 902 chilometri.

Quando pianificano il percorso, c’è un solo problema, se lo si può chiamare così: uno di loro, Marco detto Schiara, è affetto da una disabilità e ha una mobilità ridotta. Nessuno pensa, nemmeno per un attimo, di lasciarlo a casa. Il motto di una vera amicizia, si sa, è quello che Alexandre Dumas creò per “I tre moschettieri”: “Tutti per uno, uno per tutti.”. Così decidono di ingaggiare, per il loro viaggio, joelette, una carrozzella da fuoristrada, concepita per percorrere tratti off-road grazie all’aiuto di almeno tre accompagnatori, e partono, puntando dritti alla meta, dove sono arrivati alla fine di luglio.


Per questa bellissima avventura, i cinque sono stati premiati dal Presidente della Repubblica, insieme a tanti altri giovani che si sono distinti per comportamenti e azioni solidali di cui, per fortuna, le nostre comunità sono ricche.

Buon Natale di rivelazione

Nella vita realizziamo molte cose che gli altri osservano per farsi un’idea di noi. Il problema è che molte di quelle cose non ci corrispondono. Le facciamo per dovere, per necessità o per compiacere qualcuno che se le aspetta. Il risultato è che la maggior parte delle persone che incontriamo non ci conosce realmente. Quello che pensa di noi è falsato dalle tante maschere che siamo obbligati a indossare. Natale è uno di quei pochi momenti in cui sentiamo il desiderio di rivelarci. Forse perché ci riporta a quando eravamo bambini e tutto era vero e spontaneo. E allora che sia un Natale di rivelazione, è questo l’augurio che vi faccio. Rivelatevi e stupite chi ancora non sa bene chi siete. Ci guadagnerete senz’altro perché, in genere, siamo sempre migliori di ciò che siamo costretti ad apparire. Buone feste a tutti.

Festa dei nonni

Si diventa nonni a nostra insaputa, senza aver fatto nulla per meritarlo, almeno non in tempi recenti. E’ una conseguenza di azioni che vengono dal passato, delle quali ci eravamo anche dimenticati. In genere, accade proprio quando avevi ritrovato il tuo tempo e ti stavi riorganizzando la vita; quando, finalmente, ti eri deciso a mettere ordine in soffitta e ti chiedevi cosa fare di tutte quelle scatole ingombranti, piene di vecchi giocattoli appartenuti ai tuoi figli. Il primo pensiero che ti viene, quando diventi nonno, è di non dirlo a nessuno per non rovinarti la piazza e vanificare i sacrifici che fai per cercare di nascondere gli anni che passano, fino a che non incontri il tuo nipotino e capisci che diventare nonno è la cosa più bella che poteva capitarti alla tua età. Mentre lo stringi al petto e lui ti sorride, ti vengono in mente tutte le cazzate che hai fatto con tuo figlio e si scatena la paura che lui possa farne solo la metà con quella creatura indifesa che tieni in braccio. Si dovrebbe partire direttamente da nonni per essere un buon padre, pensi. Se fosse possibile. Ma la vita è una strada a senso unico e il tempo scorre solo in avanti, non ti resta altro che sperare che lui sia migliore di te. Buona festa a tutti i nonni.

L’officina delle parole

Gavignano è un piccolo borgo come ce ne sono tanti in Italia, arroccato su una collina a pochi chilometri da Roma non arriva a 2000 abitanti. A Gavignano la falegnameria di Vincenzo Cipriani, detto “Baffone”, sbuffava odore di segatura che nelle giornate ventose saliva fino alla palazzo Baronale, dove nel XII secolo nacque Papa Innocenzo III. Da qualche anno, però, le seghe e le pialle hanno smesso di funzionare e il proprietario del fondo, Fulvio Nunnari, si è chiesto cosa farne di quei locali. Gavignano è un paese troppo piccolo per avere una vera biblioteca ma Fulvio, appassionato di libri e di arte, è sempre stato convinto che la meritasse perciò, aiutato dagli amici dell’Associazione “Arte Libera-Mente”, ha pensato bene di sostituire tronchi e tavole con la carta stampata e così l’officina del legno è diventata officina delle parole. Badate bene, non è stata una demolizione seguita da una ricostruzione ma il naturale passaggio da una forma di creazione a un’altra. La falegnameria c’è ancora ma adesso è anche una biblioteca che custodisce ben 13.000 volumi, oltre a circa 5.000 fumetti e qualche centinaio di testi in diverse lingue, tutti riciclati, recuperati attraverso un messaggio semplice ed efficace: “i libri non si buttano”, portateli da noi”. Con il passare del tempo la biblioteca si è dotata anche  di una sezione video/cineteca, compresa una postazione apposita dotata di video e lettore DVD e VHS, oltre  a numerosi CD musicali. Organizzano mostre di pittura, scultura, fotografia, presentazioni di libri ed eventi culturali di ogni genere. L’Associazione “Arte Libera-Mente” oggi è arrivata a contare circa 160 iscritti, in un paese così piccolo non è roba da poco. Io ci sono stato a presentare i miei libri e, da artigiano delle parole quale ritengo di essere, mi sono sentito a casa.

La città nova

Tanto gentile e tanto onesto pare
il candidato al consiglio comunale,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e i giornali no l’ardiscon di criticare.

Egli si va, da solo a laudare,
benignamente d’umiltà vestuto;
e par che sia una cosa da ciel venuta
a miracoli mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi lo mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che intender non la può chi non la prova:

e par che de la sua labbia
uno spirito pien d’innocenza si mova,
che va dicendo all’elettore:
vota me e avrai una città nova.

(Antonio Fusco – liberamente tratto dalle rime de “La vita nuova” di Dante Alighieri)

La mia dipendenza dal gas

Fino all’età di 24 anni, ho vissuto in una casa dove l’unica fonte di calore era un camino a legna che si trovava in cucina. Nelle notti fredde d’inverno, ci si aiutava con bottiglie di vetro riempite di acqua calda oppure indossando abiti di lana prima di seppellirsi sotto uno strato di coperte che rischiava di schiacciarci, tanto erano pesanti. Ricordo che la mattina liberavo la vista a un occhio, come fosse il periscopio di un sommergibile, salutavo i pinguini che giravano nella stanza e cercavo il coraggio per uscire allo scoperto e andare a fare colazione. Mi facevo forza e sortivo, come direbbero qui in Toscana. Il trucco stava nel vestirsi più velocemente possibile. A volte mia nonna o mia madre, mi facevano trovare la maglia di lana riscaldata al fuoco del camino. Era un vero e proprio godimento. Il gas non era ancora arrivato in città, si cucinava con una bombola che durava anche un mese e che finiva sempre la domenica, quando la pasta era arrivata a metà cottura. Certo, sono passati più di 30 anni da allora e le cose sono cambiate, ma potrebbero cambiare ancora. Non necessariamente in meglio. Spero che ciò non avvenga ma, se dovesse accadere, io sono pronto. Buona domenica.

Restiamo umani

Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro. Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato.L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini”. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ”Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”. Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.

Testo integrale della lettera scritta nel 2019 da Said Visin, nostro connazionale morto suicida a vent’anni. Mi ha fatto bene leggerla per ricordarmi quanto è importante restare umani, sempre.

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Un anno Brunello per tutti.

Vellano è un pugno di case fatte di pietra e coccio, abbarbicate sulle montagne della Svizzera Pesciatina, lì dove inizia l’appennino Tosco Emiliano. La vita scorre lenta, scadenzata dai ritmi di una volta. La raccolta delle olive, la preparazione della legna per l’inverno, la sagra della frugiata e l’aria buona nelle estati afose delle città.

17 anni fa, passò da quelle parti un omuncolo che aprì lo sportello della sua auto e fece scendere un piccolo cane nero con il muso pezzato di bianco. Poi scappò via, portandosi dietro lo sguardo deluso del cagnolino e tutta la sua vigliaccheria.

Il cane non si disperò più di tanto, probabilmente capì subito di non aver perso molto. Prese a vagare per il paese fino a che si rese conto di aver trovato decine di amici che lo adottarono e gli diedero anche un nuovo nome, semmai ne avesse già avuto uno. Lo chiamarono Brunello, per via dei suoi colori e in omaggio al buon vino che si ricava dall’uva Sangiovese coltivata da quelle parti.

Brunello ha vissuto fino alla veneranda età di 17 anni. Amato, protetto e coccolato, primi fra tutti dai bambini che sono cresciuti insieme a lui.

I vellanesi, per ricordarlo, hanno deciso di dedicargli una scultura, in pietra serena di Vellano ovviamente, che sarà posizionata proprio nel luogo dove venne abbandonato.

Verrà inaugurata lunedì prossimo, all’inizio del nuovo anno, che ci piacerebbe fosse come Brunello, foriero di amore e amicizia per tutti.