L’uomo delle bolle
A tutti può capitare una giornata no. Di quelle che iniziano ad andar male da quando poggi il piede per terra dopo esserti alzato dal letto. Le cose ti cadono di mano, ti scotti con il latte, ti si blocca la caldaia mentre sei insaponato sotto la doccia. Poi esci per andare al lavoro e ti si rompe la macchina oppure scatta lo sciopero improvviso dei treni e resti a piedi alla stazione.
La prossima volta che ti succederà pensa che sei stato anche fortunato perché poteva andarti molto peggio. Poteva accaderti quello che è capitato ad uno sfigatissimo commerciante di Viareggio, il quale si è imbattuto, senza saperlo, in un una storia umana di rara bellezza e ha pensato bene di affrontarla con disprezzo per sfogare chissà quale rabbia repressa, diventando in poche ore l’uomo più odiato della Toscana.
Sto parlando del venditore di dischi che ha scacciato in malo modo, davanti ad un telecamera, Boris, l’uomo delle bolle. Colpevole, ai suoi occhi, di sporcare un pezzo di passeggiata, di infastidire i suoi potenziali clienti o semplicemente di essere uno straniero che vive di espedienti.
Ma Boris non è uno qualunque. Boris è il sogno e la magia, è quella vita intensa e diversa che molti di noi avrebbero voluto vivere. E’ una favola vivente di altri tempi che ci piace ascoltare perché ci fa ritornare bambini.
Ognuno di noi è la storia che si porta dentro.
(Il video è stato pubblicato su YouTube da Agalope Film – La foto del bimbo con la bolla è di Ilaria Lumini)
La verità inutile
Oggi lo dice, senza mezzi termini, anche il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Pier Camillo Davigo: «I politici non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto».
Ritengo, più in generale, che si tratti di uno degli effetti di quello che è stato il grande cambiamento della coscienza civile avvenuto agli inizi del XXI secolo: il passaggio dall’era della verità pericolosa a quella della verità inutile.
Ne parlo spesso durante le presentazioni del mio romanzo “La pietà dell’acqua”, che tratta anche il tema del difficile rapporto tra verità e potere. Scrivo nel libro, affrontando la storia delle stragi naziste insabbiate nel cosiddetto “armadio della vergogna“: “La verità, a volte, è solo un inganno del potere“. I lettori mi chiedono se ancora oggi è così. Io rispondo di no. Che oggi la verità non è più pericolosa come una volta, non fa più paura. La possibilità di gestire il sentimento dell’opinione pubblica attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa l’ha resa semplicemente inutile.
Nell’epoca di WikiLeaks il Re è nudo ma, piuttosto che scappare via per la vergogna, esibisce la propria intimità con la sfrontatezza e l’arroganza di chi ha capito che il popolo oggi guarda il mondo attraverso la tv e vede solo quello che gli si dice di vedere.
Allora perché vergognarsi della verità? Il concetto di scandalo non esiste più. Se si viene scoperti si nega davanti all’evidenza o si distorce la realtà. Basta essere simpatici e conoscere l’arte dell’imbonire.
Del resto, se si è riusciti a far credere alla maggioranza del Parlamento italiano che una ragazzina di nome Ruby rubacuore poteva essere scambiata per la nipote di Mubarak, tutto può essere affermato senza preoccuparsi di essere smentiti.
Come direbbero a Roma, anche che Gesù sia morto di freddo.
Roberto Mancini e la terra dei fuochi
Non ho conosciuto personalmente il sostituto commissario Roberto Mancini, non sono arrivato in tempo al commissariato San Lorenzo di Roma, dove lavorava negli ultimi tempi. Se ne è andato prima. La malattia lo ha portato via. Però so quello che ha fatto per denunciare uno dei più grandi crimini commessi nell’Italia repubblicana: l’avvelenamento di una terra, quella che poi è stata chiamata, grazie a lui, “la terra dei fuochi“, e dei suoi abitanti. E so per certo quanto valeva come uomo. L’ho percepito nel ricordo dei suoi amici e colleghi e della sua compagna Monika Dobrowolska Mancini. Chi lascia tanto affetto e tanto esempio da ricordare non può che essere stato un uomo di valore.
La sua storia, in qualche modo, è diventata anche la nostra. Di noi italiani e, sopratutto di noi che in quella terra abbiamo vissuto. Di noi che abbiamo visto i nostri cari ammalarsi respirando quell’aria, come mio padre ucciso da un linfoma.
Sabato 16 aprile 2016, ore 16.30 presso l’Auditorium Terzani della biblioteca San Giorgio di Pistoia, avrò l’onore di partecipare alla presentazione del libro “Io, morto per dovere”, che racconta questa storia e da cui è stata tratta la fiction andata in onda su Rai Uno a febbraio, interpretata da Beppe Fiorello.
Con me ci saranno: la moglie Monika Dobrowolska Mancini, Lucia Salfa, Antonio Sessa (presidente di Legambiente Pistoia) e gli autori del libro Nello Trocchia e Luca Ferrari.
E’ prevista anche la proiezione di due brevi filmati.
A proposito del figlio di Reina in tv
A partire dagli anni ’20 del novecento, a Napoli si affermò un genere teatrale popolare, che alternava il canto con la recitazione: si chiamava la “sceneggiata“. Questa forma di rappresentazione elementare della realtà si basava su tre figure fondamentali: isso (“lui”), l’eroe positivo; essa (“lei”), l’eroina; ‘o malamente (il cattivo), l’antagonista.
Lo schema prevedeva la sconfitta finale del cattivo (‘o malamente), che assurgeva a simbolo della negatività morale. Come tale focalizzava il disprezzo della platea che, in alcuni casi, gli indirizzava anche insulti e minacce.
Insomma, il ruolo di cattivo era sempre un ruolo scomodo. Giustamente, perché, almeno nella finzione, il bene doveva prevalere. Soprattutto, doveva differenziarsi dal male in modo che le persone giuste potessero sentirsi moralmente appagate.
Oggi la rappresentazione della realtà avviene, per la gran parte, in tv ed i nuovi commediografi (quelli che scrivono i copioni) sono spesso giornalisti strapagati. I ruoli sono rimasti sempre gli stessi: ci sono i buoni e i cattivi (isso, essa e ‘o malamente). Quello che è cambiato è che non si capisce più chi sono gli eroi e chi è l’antagonista perché si è voluto rinunciare alla caratterizzazione morale dei personaggi.
La logica dell’audience ha finito per mettere tutti sullo stesso piano. Così non si percepisce più la differenza tra il bene e il male e tra ciò che è eticamente giusto e ciò che non lo è.
Un giornalismo (ma è ancora giornalismo?) così concepito, che si pretende amorale in nome di una pseudo libertà di stampa che sa di alibi, in realtà diventa qualcosa di profondamente immorale. Anche perché, dovendo svolgere la funzione di servizio pubblico, si sostiene con il denaro dei contribuenti.
Quale compito più alto dovrebbe svolgere un servizio pubblico se non quello di affermare, in modo chiaro e senza possibilità di confusione, la differenza tra il bene e il male, tra la giustizia e la barbarie, tra la vittima eroe e l’infame aguzzino?
L'”infame”, questa era una delle offese che il pubblico indirizzava a “‘o malamente” durante la sceneggiata, alla fine doveva scappare via per andarsi a nascondere. Nessuno si sarebbe mai sognato di invitarlo nel proprio salotto. Bisognerebbe ricordarsene ogni tanto.