La scomparsa di Elisa Ohlsen – capitolo I

Roma, Idroscalo di Ostia

Il corpo della ragazza stava dentro un sacco di plastica nero, di quelli grandi che si usano per i bidoni da giardino. Era lì da tempo, sepolto sotto un metro di sabbia. Coperto da macchie di lentisco, di ginepro e dai bianchi gigli di mare che si concedevano all’incerto sole autunnale. Poco lontano, una risacca lenta si infrangeva sulla scogliera eretta per contenere la furia del mare in inverno e sbuffava sul silenzio del mattino a tratti interrotto dallo stridulo lamento dei gabbiani.

Vincenzo di scavi se ne intendeva, faceva quel mestiere da più di quarant’anni. Diceva sempre che il braccio della ruspa era il suo terzo braccio, il più forte e anche il più importante visto che gli aveva consentito di mantenere la famiglia e assicurare un futuro dignitoso ai figli. Gli agenti del XVII distretto di polizia lo avevano chiamato la sera prima. Avevano ricevuto una telefonata anonima che annunciava la presenza di un cadavere seppellito sotto la sabbia all’Idroscalo. L’uomo, che parlava un italiano privo di inflessione dialettale, era stato anche molto preciso nell’indicare la zona dove scavare.

Dopo essersi consultati con il magistrato di turno, i poliziotti avevano deciso di verificare la segnalazione. Non avrebbero potuto fare altrimenti, considerato il luogo chiamato in causa.

L’Idroscalo di Ostia di segreti diventati con il tempo veri e propri misteri ne custodiva tanti. A iniziare da quello legato alla terribile morte di Pier Paolo Pasolini, che proprio lì fu ucciso nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. Il suo corpo martoriato venne trovato nel mezzo di uno sterrato argilloso coperto da sabbia grigia, circondato da un nugolo di baracche di pescatori dai colori più disparati. Quelle che i burocrati, nelle inutili ordinanze di sgombero succedutesi nel tempo, chiamavano manufatti abusivi. Costruzioni improvvisate che, invece di essere demolite, negli anni sono aumentate di numero e sono diventate case per chi una casa non ce l’aveva e se l’era dovuta inventare.

Vincenzo lavorava spesso da quelle parti e nemmeno ci faceva più caso al degrado che aveva intorno. Era così da sempre e così sarebbe restato, nonostante i roboanti proclami dei politici che, in tempo di elezioni, promettevano soluzioni miracolose. Ogni città ha bisogno di un tappeto sotto il quale nascondere la propria polvere. Un luogo lontano dove relegare i perdenti, quelli che non sono riusciti a sedersi al tavolo del benessere e delle opportunità. Un posto ai margini dove gli ultimi si possano arrangiare e sopravvivere alla meno peggio senza eccessive pretese.

Lo avevano convocato per le sette del mattino. Ad aspettarlo c’era solo la volante che avrebbe dovuto smontare dal turno di notte. Ai due membri dell’equipaggio, l’agente scelto Marco Rovai e l’agente Rita Ballarin, era stato detto di trattenersi in straordinario per un paio d’ore. Giusto il tempo di fare qualche buca sulla spiaggia per mettere a posto le carte a futura memoria, in modo da poter dire che qualcosa era stato fatto. I due accolsero la richiesta sbuffando, come si fa quando ci si trova al cospetto di una grande, imprevista e inevitabile rottura di coglioni. Gli ordini sono ordini e devono essere eseguiti. Piaccia o non piaccia. In ogni caso, per sottolineare il loro scarso entusiasmo, dopo aver dato indicazione all’operaio su dove scavare, tornarono a sedersi in macchina in attesa che la farsa finisse.

Dopo una mezz’ora passata a fare buche e a ricoprirle, Vincenzo si accorse che la benna aveva toccato qualcosa di più consistente della sabbia. Lasciò la presa e si allungò di mezzo metro per sondare il terreno intorno e rendersi conto di quanto fosse grande l’ostacolo. Chi si occupa di movimento terra sa bene che deve fare molta attenzione quando scava, ci vuole poco per tranciare un cavo elettrico o una conduttura e lasciare un intero quartiere senza corrente o senz’acqua per giorni. Per non par lare della probabilità, altissima a Roma, di incappare in qualche reperto archeologico dell’antica città.

Quando si rese conto che si trattava solo di un sacco di plastica, tirò un sospiro di sollievo e imprecò a denti stretti immaginando qualcuno che aveva chiuso in quel sacco i rifiuti di una giornata passata al mare oppure la carcassa di un cane morto di cui non sapeva come sbarazzarsi. Lo fece rotolare su un lato della duna e tornò a scavare. In un primo momento, non diede molto peso alla cosa. Per come gliel’avevano prospettata, nemmeno lui credeva nella possibilità di trovare veramente un cadavere.

«A Vincè, famo du’ buche e se n’annamo a dormì. Stanotte, di rompimenti de cojoni ce ne avemo già avuti abbastanza» gli aveva detto il poliziotto maschio. E poi, non era mica una novità. Negli anni, ne aveva trovate di cose strane sottoterra. C’è tutto un mondo lì. Resti di vite vissute in superficie, finiti sepolti dove nessuno avrebbe potuto più trovarli. Come imbarazzanti segreti da far sparire per sempre.

Mentre il manovratore andava avanti con il lavoro di scavo, un cane meticcio, scappato da chissà dove, si avvicinò al sacco nero. Prese a mordere la plastica con ostinazione finché non riuscì ad aprire uno squarcio da dove sbucò quella che sembra va la mano di un essere umano. Da qualche minuto veniva giù una pioggia leggera e insistente. Il cielo era diventato grigio, dello stesso colore della sabbia e della scogliera frangiflutti che copriva la vista del mare. Se non fosse stato per il giallo della ruspa e l’azzurro della volante, sembrava di essere sprofondati all’improvviso in un vecchio film neorealista in bianco e nero. Il meticcio percepì l’inconfondibile odore della morte che si era liberato nell’aria e iniziò ad abbaiare in modo isterico, come se si trovasse al cospetto di un nemico invisibile. Solo allora Vincenzo capì che qualcosa non andava. Spense il motore, scese dal mezzo e andò a controllare da vicino. Il cane ebbe paura e si allontanò di qualche metro, fermandosi a osservare la scena a distanza di sicurezza. L’arto che si intravedeva sembrava rinsecchito ed era ridotto quasi a uno scheletro ma si capiva che probabilmente apparteneva a una ragazza. All’anulare portava un anello di metallo chiaro, con due cuori intrecciati tra loro. Sembrava molto più grande dell’esile dito e pendeva tutto da un lato. L’uomo restò a osservare immobile la scena, freddato dallo stupore. Il suo pensiero andò istintivamente ai genitori della ragazza, alla loro disperazione, alla speranza di ritrovarla in vita che, sicuramente, non li aveva mai abbandonati del tutto. Se li vide davanti, stremati dal dolore e dallo sconforto, chiedere la grazia di avere almeno una tomba su cui pregare.

Forse Dio quel giorno li aveva ascoltati, pensò, e aveva affidato a lui il compito di porre fine al loro supplizio. Dopo pochi secondi di confusione, si voltò di scatto verso la volante che si trovava sulla strada sterrata, a una cinquantina di metri. Per farsi notare, iniziò a sbracciare in silenzio. Non voleva attirare l’attenzione di quelli che vivevano nelle baracche poco distanti, sarebbe scoppiato il caos se qualcuno di loro si fosse reso conto di quanto stava accadendo.

I due poliziotti chiacchieravano e non si accorsero dell’agitazione di Vincenzo. L’agente scelto Marco Rovai, come dicono a Roma, batteva i pezzi da mesi alla bella collega che gli faceva da autista. In quel momento, era riuscito a strapparle un sì per un invito a cena. Di quanto accadeva intorno non gliene fregava assolutamente nulla. Il povero operaio fu costretto a raggiungere l’auto e a bussare al finestrino. Il poliziotto scese.

«Che c’è? Che voi? Avemo finito?» chiese, infastidito, Rovai.

«Ma che avemo finito. È mo che s’inizia. Venite a vedé. Il morto ce sta davero. ’Na ragazza, pare ’na ragazza. Poverina. Pace all’anima sua e di chi se la dovrà piagne.»

Uscita prevista: 14 maggio 2024

È possibile prenotarlo in tutte le librerie e i negozi online.

La scomparsa di Elisa Ohlsen – prologo

Roma, Libera Università degli studi sociali Carlo Guida

«La verità è sconveniente. La verità è un fattore di crisi che produce effetti devastanti su un sistema in equilibrio. È capace di travolgere solide relazioni personali e di compromettere irrimediabilmente delicati rapporti istituzionali, causando danni che spesso hanno costi insostenibili. La verità non può essere lasciata all’irresponsabile governo della morale perché non sempre ciò che è giusto è anche utile. Anzi, non lo è quasi mai.»
Il relatore fece una breve pausa per dare il tempo ai ragazzi di adattarsi a un punto di vista tanto originale quanto difficile da accettare. Poi continuò con il tono di voce sicuro di chi sa bene di cosa sta parlando.
«La verità, quando non può essere taciuta e trasformata in un segreto, ha bisogno di essere gestita, modellata, sostituita con una credibile apparenza, piegata al servizio del bene comune e dell’ordine costituito. È su questa riprovevole, quanto necessaria, regola di buon senso che si fonda non solo la fortuna degli Stati ma anche la durata di un matrimonio o la tenuta nel tempo di una famiglia. La menzogna, quando diventa strumento di realizzazione di un disegno strategico, rappresenta la più grande forza creativa dell’uomo. L’espressione massima della sua intelligenza. Grazie a essa è possibile definire infiniti universi immaginari che si sovrappongono e si intrecciano con la realtà fino a rendere impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Anche se molti sono convinti di poterlo fare.»
Si fermò a osservare gli studenti presenti in sala spostando lo sguardo da sinistra verso destra, come per sottolineare ciò che stava per dire.
«Ma sta proprio in questa convinzione la dimostrazione del buon esito di un’operazione di manipolazione della verità. Il livello di qualità del lavoro svolto sarà dato dal numero di persone che, pur non avendo conoscenza diretta dei fatti, si diranno certe di aver capito come stanno realmente le cose.»

Uscita prevista: 14 maggio 2024
È possibile prenotarlo in tutte le librerie e i negozi online.

La scomparsa di Elisa Ohlsen

Elisa Ohlsen è scomparsa da sette anni quando il cadavere mummificato di una giovane donna viene rinvenuto all’Idroscalo di Ostia. Porta al dito un anello simile a quello che indossava Elisa quando, all’età di diciassette anni, svanì nel nulla in un pomeriggio di settembre mentre passeggiava nei boschi che costeggiano il lago di Albano. Il pensiero di cronisti e investigatori va subito a lei. L’attenzione dei media sulla riapertura del fascicolo Ohlsen è massima e tutti, nel XVII distretto di polizia, sono impegnati a vederci chiaro: tutti tranne l’ispettore Massimo Valeri, detto l’Indiano, che dopo l’ennesima lite con il suo superiore è stato destinato al caso di un anziano professore, probabilmente morto suicida nella propria abitazione. Un’indagine semplice, da archiviare in fretta, almeno così sembra. Ma delle apparenze l’Indiano non si è mai fidato molto e capisce presto che questa è una di quelle situazioni in cui nessuna pista può essere ignorata, in cui le coincidenze non esistono: per venire a capo della vicenda dovrà servirsi di tutta la sua spregiudicatezza e addentrarsi in un sottobosco di segreti e legami impensabili, di ricatti spietati e inquietanti perversioni. Vite ordinarie che vengono stravolte e antichi ordini esoterici, tratteggiano un’indagine perturbante e impregnata dei tormenti di un passato che continua a proiettare ombre nel presente.

Uscita prevista: 14 maggio 2024

Da oggi é possibile prenotarlo in tutte le librerie e i negozi online.

L’esaltazione del male

Non seguo Sanremo in diretta. Non per fare lo snob o darmi arie da intellettuale con la puzza sotto il naso, è che cinque ore davanti alla tv per quel tipo di spettacolo sono davvero troppe. Preferisco guardare un film. A proposito, ieri ho visto “Maestro” di Bradley Cooper, la storia del compositore Leonard Bernstein, film bellissimo che merita tutte le 7 candidature agli Oscar. Chiusa parentesi cinematografica. Dicevamo di Sanremo. Il giorno dopo vado a recuperare quei tre o quattro momenti salienti su RaiPlay e mi tengo aggiornato. Così ho appreso che il cantante napoletano Geolier avrebbe buone possibilità di vincere il festival; quindi, ho cercato il video ufficiale del suo brano, destinato a un pubblico di giovanissimi. Per metà della sua durata viene mostrato un tipo che sfascia a pugni la porta di un bagno pubblico mentre tiene in mano una pistola semiautomatica, che ogni tanto si punta alla tempia; per l’altra metà, si esibisce una ragazzina che impugna un coltello tipo “Rambo” con il quale minaccia il tipo di prima. Alla fine, i due corrono in auto a tutta velocità fino ad accappottarsi. Poi, noi ci chiediamo il perché di tanta violenza nei giovani. Facciamo dibattiti con esperti di ogni genere per cercare di capire che risposta dare al fenomeno. Ve la do io la risposta: far scendere a calci nel culo da quel palco chi fa quel genere di video. In un mondo normale, la RAI (Servizio Pubblico pagato da tutti gli italiani) non dovrebbe consentire una cosa del genere.

“La resistenza delle donne” – Benedetta Tobagi – Einaudi – Premio Campiello 2023

Benedetta Tobagi, con “La resistenza delle donne”, ha vinto il premio Campiello 2023. Un libro che rende onore all’impegno delle donne durante la Resistenza.
La foto simbolo scelta per la copertina fu scattata da un reporter americano a Pistoia, all’incrocio tra via Abbi Pazienza e via Curtatone e Montanara, durante la Liberazione della città avvenuta l’8 settembre 1944. Nella fotografia si riconoscono da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Ilva (Raffaella) Ferretti.
Il libro inizia così:
“Sai chi sei?
Sai a cosa sei chiamata?
Per cosa vale la pena vivere e morire?
Che cosa è giusto fare?
Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano.
Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare
ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose?
Invisibile o sfrontata, mani impeccabili o spellate, sporche d’inchiostro o di farina, mitra in spalla o in casa a dar di pedale sulla macchina da cucire. In quanti modi puoilottare?
Chi vuoi essere?

Noi siamo Morte e distruttori del Creato.

Una narrazione dal ritmo preciso e avvolgente che conduce alla fine del film senza dare il tempo di capire che sono passate tre ore. Un incastro perfetto di scene, mai banali o ripetitive, che saltellano su tre diversi piani temporali con la grazia di un ballerino provetto. Il bianco e nero e il differente uso del colore aiutano, chi si dovesse distrarre un attimo, cosa davvero molto difficile, a ritrovare il cammino all’interno della storia di un uomo e di un gruppo di scienziati che hanno cambiato per sempre il destino dell’intera umanità, accompagnandola sull’orlo di un abisso che da allora è sempre immanente.
Oppenheimer è il capolavoro di Christopher Nolan. Una pellicola con un cast stellare, una colonna sonora potente che libera le emozioni lasciandole fluttuare nell’aria in balia dei venti, una fotografia onirica e visionaria, un montaggio che sembra essere suggerito dalla bacchetta di un direttore d’orchestra.
Oppenheimer è un film che svela, una volta per tutte, la grande menzogna, raccontata per anni, sulla bomba atomica costruita e utilizzata a fin di bene, come male necessario per porre fine a una guerra che, in realtà, era già finita. Così ti ritrovi davanti a centinaia di migliaia di morti, civili innocenti, famiglie intere, donne, bambini, massacrati solo per un’affermazione di potenza, per testimoniare la capacità di distruggere tutto ciò che Dio ha generato.
È una rivelazione che, lentamente e ineluttabilmente, penetra nel profondo dell’anima e lascia dentro un profondo senso di colpa per il solo fatto di appartenere al genere umano. Così, quella frase della Bhagadav Gita, che esprime il travaglio interiore dell’uomo e che Oppenheimer ripete spesso durante il film, “io sono diventato Morte, il frantumatore dei mondi,” sui titoli di coda diventa “noi siamo Morte e distruttori del Creato” e te la porti a casa atterrito dalla consapevolezza di non poterci fare niente.

Il mondo al contrario.

Ho letto “Il mondo al contrario”, di Roberto Vannacci. Si tratta di una riflessione personale su alcuni temi di attualità quali l’ambientalismo, l’energia, la società multiculturale e multietnica, la sicurezza e la legittima difesa, la casa, la famiglia, la Patria, il pianeta lgbtq+, le tasse, le nuove città e l’animalismo. Il punto di vista è rigorosamente conservatore e tradizionalista. Potrebbe tranquillamente diventare il programma di un partito di destra. Anzi, in gran parte corrisponde già ai programmi dei partiti di destra. Come pensavo, la stampa progressista ha amplificato alcuni punti, decontestualizzandoli. Frasi che si prestano a critiche e che io stesso non condivido. Per esempio, l’utilizzo del termine “normale” come sinonimo di “maggioritario”. Così si finisce con l’affermare una cosa ovvia, cioè che gli omossessuali sono una minoranza rispetto agli eterosessuali, con una costruzione lessicale oggettivamente impresentabile quando si afferma che i gay non sono “normali” in quanto diversi, per orientamento sessuale, dalla maggioranza. Personalmente, non condivido assolutamente l’utilizzo di tale termine. Io penso che é normale ciò che corrisponde alla propria natura. Per un eterosessuale è normale cercare una persona dell’altro sesso, per un omossessuale è normale preferire una persona dello stesso sesso. Ma Vannacci dedica a questo argomento più di 50 pagine dove c’è scritto anche “Nessuno vuole penalizzare i gay, discriminarli, odiarli e sottometterli, anzi, sono il primo sostenitore dell’assoluta libertà di manifestare i propri gusti e le proprie predilezioni nei modi che si reputano più opportuni”. In definitiva, la sua posizione è molto più complessa e articolata del semplice virgolettato che gli è stato attribuito per impallinarlo. L’obiettivo del corposo capitolo è quello di mettere in risalto tutta una serie di “esagerazioni” ed “ostentazioni”, spesso di cattivo gusto, maturate intorno a questo mondo. Egli cita, per esempio, la storia del genitore 1 e del genitore 2, la proposta di privare il linguaggio e alcuni testi scolastici di riferimenti all’identità sessuale, ecc. Stessa cosa sulla infelice (a dir poco) frase su Paola Egonu che non rappresenterebbe l’italianità per il suo colore della pelle. Non vi nascondo che, per motivi personali (chi conosce la composizione della mia famiglia sa di cosa parlo) mi ha fatto veramente incazzare. Non si può collegare l’italianità ai tratti somatici e al colore della pelle, altrimenti si finisce nella stessa logica della “pura razza ariana” di hitleriana memoria. La cosa buffa è che, nello stesso capitolo, lui stesso dice e argomenta che essere italiani significa condividere lo stesso sistema di valori e che tutti gli stranieri che accettano questo principio sono i benvenuti nel nostro paese. Insomma, in alcuni punti si è incartato da solo ma il suo intento, nel capitolo dedicato alla multirazzialità, è quello di affermare la necessità di un’accoglienza che, attraverso una corretta integrazione, salvaguardi i pilastri della nostra cultura e della nostra civiltà. Mi fermo qui, l’ho fatta troppo lunga. Comunque, credo di aver fatto bene a leggere il libro. Posso dire che alcune cose le condivido altre no ma ritengo che si tratti di una libera espressione del pensiero che merita lo stesso rispetto di tante altre pubblicazioni che affrontano gli stessi temi con visioni opposte. Di una cosa ho avuto l’ennesima dimostrazione: una certa stampa opera scientemente per manipolare il nostro pensiero. Ve lo dimostro con il finale dell’articolo di un importante quotidiano nazionale pubblicato oggi online, che si conclude con questa frase ad effetto: “Quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi … per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra». Quando l’ho letta, visualizzandolo il generale come appare nelle foto sui giornali, la prima cosa che ho pensato è stata: solo un essere ignobile può fare una cosa del genere. Leggendo il libro, invece, mi sono accorto che il giornalista aveva omesso di indicare che il racconto inizia con la frase: “Fu nel 1975 …”. Il generale parla della prima volta che ha visto una persona di colore, quando aveva 6 anni, e racconta le reazioni di un bambino di 6 anni. Ma il giornalista, chissà perché, ha dimenticato di scriverlo.

La libertà di opinione.

La libertà di opinione è sacra. La libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero è il fondamento di ogni vera democrazia. Certo, libertà di opinione non vuol dire arbitrio. Non rappresenta una sorta di lasciapassare per poter dire ciò che ci pare senza pagarne le conseguenze. In nome della libertà di opinione non si può offendere la dignità e l’onore di altre persone, non si può incitare all’odio verso gruppi di diverso orientamento religioso, sessuale, politico, non si possono violare altre libertà riconosciute dalla nostra Costituzione e dalla legge. Ma sia chiara una cosa, e per questa cosa io mi batterò sempre, in Italia solo un Giudice, nel corso di un regolare processo, può stabilire se, quando e come si è abusato di tale libertà. Al di fuori di tale contesto, non esistono menti più illuminate di altre che possano stabilire ciò che si può dire e ciò che non si può dire, ciò che è corretto e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Esiste una sola parola nel nostro vocabolario per definire un comportamento del genere ed è “censura”. Non importa se a farla è il Ministero della cultura popolare nei regimi totalitari oppure un gruppo di “saggi” al soldo di testate giornalistiche negli odierni sistemi democratici, il risultato è sempre lo stesso: voler imporre agli altri il proprio pensiero.

Per ricordare cosa non dimenticare …

Da più di 30 anni celebriamo il ricordo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. I volti di Falcone e Borsellino sono diventati un’icona da esibire al momento giusto “per non dimenticare”. Per non dimenticare cosa? Ci ricordiamo ancora cosa non dobbiamo dimenticare? Ci ricordiamo ancora che cos’è la mafia? Non ne sarei così sicuro visto che la mafia di quel periodo storico non esiste più. Il mondo è cambiato. Sono cambiati gli assetti e gli equilibri politici, i metodi e le forme di manifestazione del potere occulto che sfida quello fondato sulle leggi. Niente più bombe e omicidi, oggi, ma la mafia c’è sempre. E’ intorno a noi, la sfioriamo tutti i giorni e spesso ne subiamo le conseguenze. La mafia è quando tre o più persone si avvalgono della forza di intimidazione del loro vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per … per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Questo ci dice il codice penale. Questa è la mafia, anzi le mafie perché ce ne sono di vario tipo. Le mafie gestiscono ciò che dovrebbe essere nostro per darlo agli amici e agli amici degli amici. Un posto di lavoro, un appalto, una promozione, un posto letto all’ospedale, una tac e perfino un passaporto, di questi tempi, si può ottenere esercitando il metodo mafioso. Almeno un paio di volte all’anno ricordiamocelo: non rispettare le regole è il gioco preferito dalle mafie.

Il medico della mutua.

Eppure, noi boomer, abbiamo vissuto un’epoca in cui per farti visitare dal tuo medico di base bastava andare in ambulatorio senza appuntamento o prenotazione, perché ce n’erano tanti. Se non te la sentivi, lo chiamavi e veniva lui a casa tua. Il medico non aveva il computer davanti a sé ma sapeva tutto di te e della tua famiglia, ti visitava e solo se era veramente necessario ti scaricava allo specialista. Noi boomer potevamo chiedere al nostro medico di base di prescriverci un ricovero di qualche giorno in ospedale solo per fare degli accertamenti in tutta tranquillità e riposare un po’. Il posto letto si trovava sempre. Noi boomer le medicine, gli esami e gli interventi non li pagavamo. Ci pensava la “Mutua”. E se i soldi allo Stato non bastavano per pagare tutto questo, se li faceva prestare facendo debito pubblico. Così eravamo felici e continuavamo a votarli, senza nemmeno stare a pensare che i debiti, prima o poi, si pagano. E poi, all’epoca i soldi (le compiante lire) le stampavano in casa. Che problema c’era? Noi boomer stavamo meglio di chi ci ha preceduto e molto meglio di chi è venuto dopo di noi perché la Sanità l’abbiamo usata, abusata e distrutta pensando che il mondo sarebbe finito con noi. Noi boomer saremo ricordati come la generazione più egoista che la storia abbia mai conosciuto.