Angein

Angein ha novant’anni. Vive nel borgo medioevale di Cervo ligure, un presepe incastonato nella riviera dei fiori, tra Imperia e Savona, dove i vicoli stretti scorrono tra le case in pietra, come fossero rigagnoli di un torrente, per sfociare, d’improvviso, in una piazza affacciata su un mare di un azzurro intenso. All’orizzonte la Corsica. Angein sull’arrivar del tramonto è li. Pochi tavoli, qualche sedia in ferro battuto e lui con una vecchia radio a cassette. La suona come fosse un violino. Accompagna con vecchi valzer di Strauss il sole che scompare dietro le alpi francesi. Qualcuno si ferma a salutarlo ed accenna un passo di danza. E’ felice Angein, di una felicità contagiosa, che si espande tutto intorno rendendo magico quel momento. La felicità è un fortunato allineamento di circostanze. E’ strettamente legata al tempo. Per questa ragione restiamo delusi quando pensiamo di ritrovarla semplicemente ritornando in un luogo o rivedendo una persona. Bisogna saperla cogliere, osservarla e lasciarla andare. Possiamo fermarla solo in un ricordo. Era un pomeriggio del giorno di santa Lucia.

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Il gattopardo 

Passata la sbornia del referendum, dopo aver festeggiato per aver salvato una Costituzione di cui la stragrande maggioranza degli elettori non conosceva nemmeno due righe, dopo l’esultanza per l’eliminazione di uno che ci stava sulle scatole come se si fosse trattato di un concorrente antipatico dell’Isola dei famosi o del Grande fratello, cominciamo a farci qualche domandina. Per esempio: le Province, che dovevano essere definitivamente cancellate dalla riforma, ora riaprono come prima? E se riaprono le Province, che succede degli altri uffici dell’Amministrazione periferica dello Stato (Tribunali, Presidi delle Forze dell’ordine, ecc) già chiusi o che dovevano essere chiusi per risparmiare ed ottimizzare risorse? Tutto resta o torna come prima? Far finta di cambiare tutto affinché nulla cambi. Mi ricorda qualcosa. Ma non lo aveva già descritto Tommasi di Lampedusa nel suo bellissimo romanzo “Il gattopardo”? Eh si. È che noi italiani siamo fatti così, da sempre. Siamo furbi, talmente furbi che spesso riusciamo a fregarci anche da soli.