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Il DNA permette di sapere se una persona era presente o no sulla scena del crimine È l’impronta genetica che rende unico ciascuno di noi e la cui analisi facilita anche il lavoro degli investigatori.

La struttura biochimica del Dna fu scoperta nel 1953 James Watson e Francis Crick. E’ un codice semplicissimo che si avvale di un alfabeto di quattro lettere A, G, C e T, le basi azotate adenina, guanina, citosina e timina. La combinazione di queste lettere non è completamente libera e in ogni campione di Dna vi devono essere tante A quante T e tante G quante C.. La doppia elica del Dna è infatti formata da due filamenti: su uno dei filamenti c’è una A, sull’altro c’è una T e ogni volta che su uno c’è una G, sull’altro c’è una C. In pratica, un gene non è altro che una lunga sequenza del tipo: TACGATCGGC.

La polizia si serve del Dna, generalmente isolato dal sangue, dalla pelle, dalla saliva, dai capelli e da altri tessuti e fluidi biologici, per identificare i responsabili di atti criminosi, come delitti o violenze. Il processo utilizzato è noto come “fingerprinting genetico” (impronte digitali genetiche): la tecnica consiste nel comparare la lunghezza delle sezioni variabili del Dna ripetitivo; ad esempio la coppia di basi AT ripetuta 4 volte (ATATATAT) ma il numero delle ripetizioni può essere superiore.

Il test si basa sull’estrazione di un campione di Dna da un tessuto o da un liquido del corpo: il campione deve essere poi spezzettato in “strisce”, grazie ad alcuni enzimi che riconoscono specifiche sequenze di basi lungo il filamento di Dna e che lo “tagliano” esattamente in corrispondenza di queste sequenze; se le sequenze, simili a quelle di un codice a barre, coincidono in diverse strisce, esiste un’elevatissima probabilità che la coincidenza non sia casuale.

Nel caso in cui si prende in esame un alto numero di “strisce” e si seguono metodi moderni, la probabilità di una coincidenza casuale è 1 su 100 miliardi, vale a dire praticamente nulla: se invece le strisce utilizzate sono poche le probabilità possono scendere a 1 su 5 milioni.

E’ proprio grazie alle analisi del Dna, effettuate sui tanti mozziconi di sigaretta trovati sul monte che sovrasta l’autostrada A/29 Trapani – Palermo, che sono stati incastrati gli esecutori della strage di Capaci (Pa).

Una microtraccia lasciata su un minuscolo pezzo di scotch ha permesso di confutare la testimonianza di Angelo Izzo nel caso del duplice omicidio di Maria Carmela Maiorano e della figlia quattordicenne Valentina. Le donne furono uccise, legate con un nastro adesivo e poi sotterrate in una villetta nei pressi di Ferrazzano, in provincia di Campobasso, il 28 aprile 2005. Nella sala da pranzo, dove secondo gli investigatori era stata uccisa la giovane ragazza, Izzo diceva di non esserci mai entrato. Gli inquirenti non erano riusciti a trovare, in quel luogo, impronte o altri reperti utili per fornire prove da usare durante il processo. Furono trovati solamente alcuni piccoli pezzettini di nastro adesivo che probabilmente l’assassino aveva staccato con la bocca e che gli erano rimasti appiccicati al labbro. Il Dna estrapolato da quei microframmenti di scotch corrispondeva a quello di Angelo Izzo e dimostrava che l’imputato in quella stanza, a differenza di quanto affermava, ci era entrato.

Sempre nel 2005 un altro caso di omicidio fu risolto a Firenze grazie a delle piccolissime tracce di sangue trovate sui vestiti dell’assassino. Si tratta dell’omicidio di Emanuela Biagiotti trovata morta, accoltellata, all’interno del supermercato “Penny Market” dove lavorava. Dopo varie indagini i sospetti caddero su un collega della vittima: Leonardo Tovoli. Nonostante l’uomo avesse lavato gli abiti che indossava, gli investigatori riuscirono a trovare tra le fibre del tessuto dei pantaloni una piccola traccia di sangue: l’analisi del Dna dimostrò che si trattava proprio del sangue della vittima.

Le ultime tecnologie permettono anche di fare analisi specifiche sui Dna per capire se esiste una relazione parentale di origine materna o paterna. Questa possibilità è stata utilizzata nel caso dell’omicidio di Giuseppina Potenza, trovata morta sulla spiaggia di Manfredonia nel 2004. I sospettati erano tanti e per ridurre il campo venne fatta un’analisi sul cromosoma Y del Dna trovato sul corpo della vittima per vedere se c’era un legame parentale tra la ragazza uccisa e l’assassino. Il cromosoma Y viene, infatti, trasmesso di padre in figlio in tutta la progenie maschile. In questo caso il cromosoma Y corrispondeva a quello del padre di Giuseppina, ma il Dna non era il suo. Rimanevano “in gioco” una decina di persone tra fratelli del padre, figli dei fratelli e cugini. Il Dna trovato nel liquido seminale corrispondeva a quello di un cugino da parte del padre.

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