La città nova

Tanto gentile e tanto onesto pare
il candidato al consiglio comunale,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e i giornali no l’ardiscon di criticare.

Egli si va, da solo a laudare,
benignamente d’umiltà vestuto;
e par che sia una cosa da ciel venuta
a miracoli mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi lo mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che intender non la può chi non la prova:

e par che de la sua labbia
uno spirito pien d’innocenza si mova,
che va dicendo all’elettore:
vota me e avrai una città nova.

(Antonio Fusco – liberamente tratto dalle rime de “La vita nuova” di Dante Alighieri)

Buona Pasqua con … l’Indiano.

Care amiche, cari amici, desidero farvi gli auguri di una serena Pasqua. Direte voi: come si fa a essere sereni con tutto quello che sta succedendo in questi ultimi tempi? Ci si può provare, magari spegnendo per un po’ la tv, oppure guardando meno i telegiornali e tutti quei programmi di approfondimento che rendono le cose più tragiche per tenerci incollati allo schermo e vendere più pubblicità. Cambiamo stazione radio, ascoltiamo buona musica. Magari leggiamo un libro in più. Incontriamo i nostri amici, parliamo con i nostri cari. Restiamo nel nostro mondo per qualche giorno, ci farà bene. Poi volevo dirvi un’altra cosa: il mio nuovo romanzo è pronto per andare in stampa. “Io sono l’indiano – La prima indagine dell’ispettore Massimo Valeri”, questo è il titolo. Uscirà per la collana Nero Rizzoli il 14 giugno. Tra qualche giorno vi farò vedere la copertina e vi parlerò del XVII distretto di polizia di Roma, della dirigente del commissariato Ornella Priore, del sostituto commissario Bruno Tognozzi (detto il cane), di Matteo Landini, di Irina, dell’onorevole Salieri, di Zula e Jemal e del loro amore spezzato, di Lucio Berardi (detto Tyson), del piccolo Marius e degli altri personaggi di questa storia, oltre che dell’Indiano, naturalmente. Ci tenevo a farvelo sapere. A presto.

La mia dipendenza dal gas

Fino all’età di 24 anni, ho vissuto in una casa dove l’unica fonte di calore era un camino a legna che si trovava in cucina. Nelle notti fredde d’inverno, ci si aiutava con bottiglie di vetro riempite di acqua calda oppure indossando abiti di lana prima di seppellirsi sotto uno strato di coperte che rischiava di schiacciarci, tanto erano pesanti. Ricordo che la mattina liberavo la vista a un occhio, come fosse il periscopio di un sommergibile, salutavo i pinguini che giravano nella stanza e cercavo il coraggio per uscire allo scoperto e andare a fare colazione. Mi facevo forza e sortivo, come direbbero qui in Toscana. Il trucco stava nel vestirsi più velocemente possibile. A volte mia nonna o mia madre, mi facevano trovare la maglia di lana riscaldata al fuoco del camino. Era un vero e proprio godimento. Il gas non era ancora arrivato in città, si cucinava con una bombola che durava anche un mese e che finiva sempre la domenica, quando la pasta era arrivata a metà cottura. Certo, sono passati più di 30 anni da allora e le cose sono cambiate, ma potrebbero cambiare ancora. Non necessariamente in meglio. Spero che ciò non avvenga ma, se dovesse accadere, io sono pronto. Buona domenica.

Restiamo umani

Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro. Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato.L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini”. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ”Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”. Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.

Testo integrale della lettera scritta nel 2019 da Said Visin, nostro connazionale morto suicida a vent’anni. Mi ha fatto bene leggerla per ricordarmi quanto è importante restare umani, sempre.

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Quando volevamo fermare il mondo

Quanto tempo ci vuole per scrivere un libro? Sei mesi, un anno, a volte una vita intera, non esiste una regola. A deciderlo non è tanto l’impegno nella scrittura, è la storia che deve maturare, come un buon vino, e ogni storia ha i suoi tempi. Per concludere questo romanzo ci sono voluti venti anni. Ho dovuto aspettare con pazienza il momento giusto, che oggi è finalmente arrivato. Alla fine di questo lungo viaggio, quello che posso dire è che sono veramente orgoglioso di averlo scritto. E’ un omaggio al valore dell’amicizia e della verità che mi ha anche consentito di regolare un po’ di conti con la coscienza. Tutto iniziò in una calda domenica di luglio del 2001, quando, appena rientrato dal G8 di Genova, vestito ancora con la mimetica che puzzava di sudore e del gas dei lacrimogeni, ricevetti una telefonata dalla moglie di uno dei miei migliori amici …

Dal 23 giugno in tutte le librerie e gli store online, è già possibile prenotarlo. Buona lettura.